13 March 2020 @ 02:38 pm
[JIBAKU SHOUNEN HANAKO-KUN/HAIKYUU/FINAL FANTASY VI] Ficlet per la settimana 6 del COW-T10  

Titolo: Cut the knitting points

Fandom: Jibaku Shounen Hanako-kun

Personaggi: Amane

Genere: drammatico (credo???)

Avvertimenti: idk

Parole: 914

Note: COW-T10, sesta settimana, m3 con i prompt “legame fraterno” e ho scelto di scrivere una fanfiction.

Non so com’è la backstory di Yugi e Amane e l’anime non mi dà molte informazioni, quindi sticazzi, mi sono inventata qualcosa.



Ci ha provato, Amane. Ci ha provato da sempre, da quando l’ha visto arrivare a casa in braccio alla mamma, con gli occhi già spalancati sul mondo e il sorriso già cucito sul viso, ma già da appena nato Amane l’aveva capito: era un sorriso stampato sulla sua faccia, come se Yugi avesse capito immediatamente cosa gli sarebbe stato utile ad attirare il mondo nella sua ragnatela. E, per tutta la sua vita, è stato così. È stato semplice, nascondersi dietro l’apparenza di ragazzino innocente e docile.

Lo odiava, naturalmente, ma ci ha provato a non farlo, a dargli una possibilità. La mamma sembrava così ragionevole, quando gli diceva di farlo.

Ci ha provato, a tenerlo sotto controllo. Prima per evitare che si facesse male, che si infilasse in qualche situazione pericolosa o peggio, che si facesse del male. E poi per evitare che diventasse un pericolo, a volte anche mortale, per chiunque lo circondasse.

Ci ha provato davvero. L’ha trattenuto, a volte l’ha anche legato per poi trovarselo davanti qualche minuto dopo, di nuovo libero e appeso al braccio, sempre con quel sorriso largo e affilato, gli occhi scuri che assomigliavano più ad un pozzo del quale Amane non riusciva a vedere il fondo.

Ci ha provato, a resistergli, a tenerlo lontano da sé, a fare in modo che non gli si cucisse addosso come un parassita, uno che non potrebbe vivere senza il proprio ospite.

Eppure è questo che fa, Yugi, quando lo prende per mano e lo trascina a vedere la propria collezione di insetti e animaletti sventrati o decapitati, quando lo osserva per ore senza dire nulla, e Amane ci ha provato a ignorare quel formicolio alla nuca. Ci ha provato a tenerlo lontano quando tornava a casa da scuola pieno di lividi, lo sguardo basso. Non erano quelli i momenti per Yugi, eppure si prendeva anche quelli, abbracciandolo e riempiendolo di parole senza rendersi conto, senza capire i propri limiti.


È questo che fa, Yugi, quando Amane si sveglia una notte e se lo trova addosso, nel buio della loro cameretta, nel suo letto. Quando sente la sua manina troppo piccola per certi tipi di tocco viaggiare sotto le coperte, nel caldo dei loro corpi, piano piano. Gli si sta cucendo addosso. Sente il suo sguardo, sulla nuca, sente anche il suo silenzio, e sente le sue dita quasi trasformarsi in tentacoli che gli scivolano addosso, eppure per qualche motivo non si muove. Si congela, forse se rimane immobile il suo corpo svanirà e potrà scappare, solo per questa notte. Ma poi Yugi lo chiama.

"Amane, lo so che sei sveglio. Il tuo respiro è cambiato."

La sua voce è strana, troppo calma per quello che sta facendo, e Amane trattiene il respiro quando sente le dita piccolissime del suo fratellino scivolare sulla sua pelle, il suo fiato morbido sulla nuca.

"Yugi," dice a bassa voce, incapace di aggiungere altro. Ultimamente si ritrova sempre più spesso a non sapere come parlargli, come dirgli quello che vorrebbe. Più il tempo passa, meno riesce a comprendere cosa passi per la testa del suo fratellino, soprattutto dopo averlo colto a guardare la mamma in quel modo, quel modo di quando vede un ranocchio da aprire in due. "Yugi."

Se c'è qualcosa di sano in te, tiralo fuori adesso.

"Volevo solo toccarti un po', Amane. Non è divertente? La tua pelle è così calda."

Non è questo, che dovrebbero fare come fratelli. Forse Yugi lo sa già.

Forse è per questo che si ostina a farlo - a cercarlo con insistenza, a stringerlo fra le braccia piccole ma incredibilmente forti, a tenerlo stretto e imprigionarlo come può. Forse Yugi lo sa, di avere qualcosa di velenoso alle sue estremità, forse è per questo che le usa così tanto. E non può essere che veleno, brucia sulla pelle di Amane e non sa nemmeno il perché.

“Lasciati andare,” dice Yugi, soffiando al suo orecchio con una certa vibrazione eccitata nella sua voce, come se stesse aspettando questo momento da troppo tempo. Come se avesse passato la sua minuscola vita a tessergli una ragnatela addosso.

Il pensiero di come il suo corpo potrebbe rispondere è abbastanza da sbloccarlo e farlo finalmente fuggire.

Rotola via dal letto, invade quello della mamma sperando che non si svegli. Sperando che Yugi non lo segua. Fortunatamente, quella notte non trova i suoi occhi enormi a fissarlo nel buio.


Ci ha provato, ma quando torna a casa e trova la mamma in cucina tutta bagnata di rosso, ogni limite scompare.

Ogni pensiero svanisce, i battiti del suo cuore diventano suoni vuoti, i suoi occhi si riempiono di sangue e lacrime. Ci sarà tempo per piangere, adesso deve solo trovarlo. Prende in mano il coltello sporco accanto al corpo freddo della mammma, e lentamente sale su per le scale. Un passo dopo l'altro, le mani che tremano.

Forse finirà a pentirsene per l’eternità. Lo sapeva, che quel bambino avrebbe distrutto tutto. Rimanendogli accanto per tutta la vita qualche tentacolo del suo spirito deve essersi intrufolato dentro di lui, senza che Amane potesse accorgersene, ma non ci sono più limiti, non c’è più nulla da concedere. Il prossimo a finire in una pozza di sangue potrebbe essere lui, eppure nessuno gli crederà, probabilmente.

Gli viene da piangere ed è già così difficile, tenere le dita strette attorno al coltello. Ma adesso sono la furia, la confusione, il dolore a guidare la sua mano. Forse qualcuno lo perdonerà perché davvero, ci ha provato.



Titolo: Horror vacui

Fandom: Haikyuu

Personaggi: Tooru Oikawa/Hajime Iwaizumi

Genere: introspettivo

Avvertimenti: future fic

Parole: 929

Note: COW-T10, sesta settimana, m5, originato da questo prompt nella mia inbox (prima o poi farò un altro post per il drabble meme) “Haikyuu!!, Iwaizumi/Oikawa, A volte a paura di svegliarsi e scoprire che Iwaizumi non è più lì, scoprire che tutto quel tempo trascorso assieme non ha mai avuto alcun valore.”



Si sveglia lentamente, non per il suono della sveglia ma forse per il fastidio degli auricolari ancora infilati nelle sue orecchie, che devono avergli impedito di muoversi attorcigliandosi intorno alle sue mani e al collo. Deve essersi addormentato guardando qualcosa su Youtube, non ricorda cosa. È strano, che il cellulare non gli sia caduto sulla faccia. Toglie e arrotola come meglio può - nella corrente situazione - le cuffiette, prima di aprire gli occhi.

Lo fa piano, sbatte le palpebre pigramente e si stropiccia gli occhi con un lento, pesante sbadiglio, ritrovandosi a fissare il soffitto pallido che riflette la calda luce del mattino e poi, come sempre, si guarda al fianco.


Non lo dà mai per scontato, quello che trova tutte le mattine accanto a lui. L'ampia schiena, il materasso che affonda sotto il peso di Iwaizumi, la forma del suo corpo che blocca un po' della luce del sole - spesso il motivo per cui Oikawa ha davvero bisogno di una sveglia, certe mattine, altrimenti a costringere i suoi occhi aperti ci sarebbe il sole.

È qualcosa che fa tutte le mattine, Oikawa - ormai è una abitudine. Aveva più senso all'inizio della loro convivenza, quando il pensiero che Iwaizumi si sarebbe stancato più del solito, convivendo ora tutto il giorno, l'avrebbe spinto fuori dal letto, fuori dal loro appartamento.

La maggior parte del tempo non si vede da fuori, non si sente quando parla, non sa dove sia il limite. Perché, per Tooru, il limite non esiste quasi in nessun senso. Sa cosa sia il pericolo, sa esattamente cosa faccia scattare la gente, eppure qualche volta si dimentica che facendo scattare i meccanismi abbastanza volte il vaso si riempie sempre. Ogni notte va a letto senza pensare a nulla, e ogni mattina si sveglia così: preoccupato. Di aver fatto o detto qualcosa per far andare via Iwa-chan senza dirgli niente e senza discutere, come se fosse un gatto lunatico. Si sveglia col bisogno quasi atavico di guardarsi al fianco per assicurarsi che Iwaizumi sia lì, prima di poter cominciare la giornata.

Perché se anche Iwa-chan lo allontana, se sparisce anche lui, non ci sarà molto, attorno a Tooru. Non ci sarà nulla. Ha passato troppo tempo rassicurandosi che Hajime sarebbe stato lì al suo fianco, pure cercando nell’altro senso di metterlo alla prova. Non svegliarsi accanto a lui significherebbe arrendersi al fatto di essere l’unico ad affrontare ciò che accade nella sua testa. E da soli non può essere un bel posto, quello creato dai suoi pensieri. Un giorno dovrà viverci dentro, guardarsi attorno e guardarla tutta, la sua desolazione, ma forse è meglio non pensarci per ora.

In compenso, sta imparando a controllare il terrore del vuoto che potrebbe formarsi vicino a lui, intorno a lui.

All'inizio era una stretta intensa, quasi dolorosa. Il primo anno l'ha passato svegliandosi col panico addosso, col cuore che batteva forte e il bisogno di aggrapparsi al corpo dormiente di Iwaizumi. Ma non l'ha mai fatto. Non gliel'ha mai detto. Non le dice mai, lui, cose come queste.

Per l'orgoglio.

E per non spaventarlo e farlo andare via ancora prima di quando dovrebbe. In fondo, a nessuno piacerebbe sapere di essere l'unica persona alla quale un'altra si affiderebbe. Sarebbe solo un peso, sarebbe spaventoso, anche se è più o meno così.

Certo, ci sono gli amici, ci sono i colleghi, c'è tutto un mondo lì fuori. Ma, pensa guardando i muscoli e le ossa di Iwa-chan muoversi sotto la sua pelle nuda, il mondo non è come Iwa-chan. Nessuno l'ha mai sopportato così a lungo, e con questo si intende "tutta la vita". Oikawa non ricorda di aver mai vissuto un giorno senza Iwaizumi accanto, in qualche modo Iwa-chan c'era sempre.

E lo sa, che la cosa dovrebbe parlare per sé, ma così tante persone l'hanno adorato all'inizio, riso dei suoi scherzi, l'hanno ammirato da lontano. E poi si sono avvicinati. Hanno intravisto qualcosa di chi sia, e le donne sono le prime a scappare via, a costruire distanze.

Comprensibile. Per quanto vorrebbe non pensarlo ce ne sono fin troppi in giro, di uomini come lui. In fondo, è solo la sua pallavolo a renderlo diverso, particolare. È solo il fatto che ha imparato come piazzare tiri da punti assicurati, è solo il fatto di essere l'unico a sapere cosa Iwa-chan voglia, sul campo e in casa, in cucina, sotto le lenzuola.

Eppure potrebbe sempre scappargli fra le dita, potrebbe sgusciare via come una saponetta e sparire, o nel peggior caso non sparire mai e rimanere lì come costante promemoria di un limite che Oikawa ha oltrepassato, spingendolo via. Non che lo voglia. Ai tempi della scuola era così, Tooru si rendeva insopportabile per tastare dove fosse, il limite, per capire quanto oltre potesse spingerlo. E non l'ha mai visto il limite, ma una volta oltrepassata la soglia dell'appartamento che condividono, il limite non ha più avuto importanza. Perché adesso ci sono solo loro due, le loro abitudini, quella cosa che hanno costruito e che li tiene assieme. Non può più permettersi di spingere Iwa-chan al proprio limite. Sono diventati grandi. Adesso, gli basta sapere che ogni mattina Hajime è ancora lì, addormentato accanto a lui.

Ogni mattina si accoccola di fianco a lui iniziando a tracciare le linee dei suoi muscoli, per minuti interi, ed è così piacevole. Rassicurante, persino.

E poi ogni mattina sorride a sé stesso, decidendo di cominciare un altro giorno. Stamattina si alza lentamente, assicurandosi ancora che Hajime sia sempre lì. Dovrà smettere di dubitare, prima o poi. Chiaramente, oggi non è quel giorno.




Titolo: Color spell

Fandom: Final Fantasy VI

Personaggi: Relm Arrowny

Genere: introspettivo

Avvertimenti: missing moment, in inglese

Parole: 452

Note: COW-T10, sesta settimana, m1 col prompt “The Magi”. Sì, sto finendo l'ennesimo playthrough di FFVI.



“Long ago, the War of the Magi reduced the world to a scorched wasteland, and Magic simply ceased to exist."

She laughed the first time she heard that.

“But grandpa, we use Magic!” she chirped all cheerful and giggly, but one look from her grandpa seemed to be enough to turn her silent. 

“The world should not know that, though. So this is the story we’ll keep telling each other, this is what the world believes. We should never let them know we have Magic inside,” her grandpa said. 

Relm was so small back then. She must have been five or six, and she did not understand why everyone in Thamasa seemed to shush her when she even implied she could use Magic. Nobody would let her grab a brush and color the world she saw, but the Magic in her burst through anyway. 

“Why?” She asked at the time, while doodling something on a piece of paper. 

“Because humans do not like us. If you see one of them, pretend like you don’t even know what Magic is. Do you understand?”

She didn’t then but nodded anyway. 


She knows now, feeling the Espers’ voices in her head as they roam furiously, telling her about what happened, about how the Magic Triad put the world through fire and death and spread chaos all around, about the War that ensued, about the birth of people who could make entire towns explode with Magic. People like her. 

About how the humans came in droves, hunting and killing the people like her, her people, with a cruelty she could not even hear about without reeling in horror - people being burnt, children being murdered for being Magi’s kids, women being stabbed by multitudes while begging for the unborn children in their bosom. 

It’s a story she never got to know in its details. All she knew is there was a War against her people a long time ago. Knowing where it started, how the humans destroyed each chance to bring about peace, it made her quiet. Until she saw Terra and knew exactly she was hiding a secret, one like Relm’s. And the people with her must have known. 


When she first hears the word Magic come from their lips it’s not in a scared tone, it’s not an accusation. It’s hope. They are looking for it, they need it. That’s how she knows - they are not like the humans that fought against her people a long time ago. She can let them know. She can travel with them. 

Finally, she won’t only paint Thamasa, she will put color all over the world. After all, the world seems to need it desperately, these days. 



Titolo: Hate

Fandom: Final Fantasy VI

Personaggi: Kefka Palazzo

Genere: introspettivo

Avvertimenti: missing moment

Parole: 747

Note: COW-T10, sesta settimana, m1 col prompt “The Sovereign”.


Le guance gli fanno male. Ha passato troppo tempo a ridere, e adesso le guance gli fanno male. Ride da giorni, ininterrottamente, mentre dalle punte delle dita scoppiano fulmini e fuoco, mentre dall’alto della sua torre di macerie brucia qualsiasi cosa il suo occhio riesca a vedere, con schiocchi delle dita fa bruciare intere città, ride guardando il mondo in rovina che urla e prega e nessuna delle loro parole può raggiungerlo, lì dov’è. E anche se le sentisse, la sua risata le coprirebbe, e poi metterebbe a tacere togliendo il respiro a questi esseri nemmeno degni di pulirgli le scarpe. E loro dovrebbero pure rivolgergli la parola? 

Perché disperarsi così tanto? Lo sanno, che prima o poi moriranno. Lo sanno che prima o poi tutto questo sparirà. Quindi perché pregare, perché piangere, perché urlare? Muoiono ogni giorno, sannò che per tutti loro sarà questo, il destino. 

Lo sa anche lui. Lo sa persino quando la Magia gli riempie la testa, quando i pensieri vengono spazzati via dal potere che ha assorbito e da quello che l’ha reso ciò che è ora, quando il rumore assordante che sente nella testa da quando riesce a ricordare gli impedisce di dormire diventa più intenso, addirittura doloroso. Quando fa scoppiare le fiamme intorno a sé per metterlo a tacere e non ci riesce.

Non ricorda nulla, della sua vita prima degli esperimenti, prima di quel rumore. Non ricorda dove vivesse, non ricorda sua madre. Solo sapere di averne avuta una lo fa infuriare, il sapere di essere nato come uno di quei pezzenti che piangono sulle sue azioni gli manda il sangue al cervello. 

Sa bene di essere come loro. Sa anche di essere il loro sovrano, perché di Re e di Imperatori non ce ne sono più. L'unico che esisteva l'ha sistemato lui, con questa risata sulle labbra che ora risuona dalla vetta. 

L'ha sempre saputo, di essere (o di essere stato, in passato), uno di loro. L'ha sempre saputo che, come loro, avrebbe avuto una fine. Morire non è un problema. Il problema sono quel gruppetto di stupidi insolenti che camminano sui rottami del mondo in cui vivevano, che scalano la sua torre senza arrendersi e non ne conosce il senso, abbattono i mostri che si sono trovati lì per caso e che ora girano in tondo affamati, vogliosi di distruzione. Kefka li lascia esistere per questo - esistono per distruggere, per portare la morte a chiunque incappi sulla loro strada. È divertente da vedere. 

Lo diverte meno guardare mentre quegli imbecilli continuano a scalare il suo monumento per raggiungerlo. Lo riempie di furia. Il fatto che vogliano arrivare a lui, il fatto che ci stiano provando. Il fatto che ancora si ostinino a vivere - e che Terra sia sopravvissuta. In effetti, tutto è iniziato quando se l'è fatta sfuggire. Ma anche quando Celes gli è scappata fra le dita. Quando ha potuto solo guardare mentre il re di Figaro lo ingannava scappando via in groppa a quei polli da corsa. Quando hanno avuto la faccia tosta di sopravvivere, senza chiedere il permesso - che, comunque, gli sarebbe stato negato. Ovvio. 

Va bene, decide, guardandoli mentre si impegnano così tanto per arrivare a lui, mentre combattono e rimangono feriti e si curano e si rialzano. Forse non se ne rendono conto, di essere in picchiata verso la morte, in qualsiasi caso. Che vengano, li punirà tutti. E poi punirà il mondo perché no, il resto di tutta quella stupida gente è colpevole quanto loro, di resistere. Punirli per questo è l'unica cosa rimasta che riesca a divertirlo. 

Poi, forse, metterà fine a questo patetico pianeta. O forse friggerà qualche contadino. Dipende un po' tutto da cosa avrà voglia di fare.



Sicuramente non si aspetta di svanire, ma è questo che fa il suo corpo, è questo che fa la sua mente mentre si sbrandella, mentre svanisce pezzo a pezzo. Li guarda tutti, mentre lo osservano svanire stremati. 

Perché? 

È la domanda che gli riempie la testa ora. L'hanno distrutto. Adesso, come le loro città e i loro villaggi, sta bruciando anche lui. 

Le guance gli fanno male, dev'essere perché sta sorridendo. Perché è buffo - la cosa che voleva di più era la distruzione, l'inesistenza di tutte le cose, eppure alla fine sono stati loro a distruggerlo. E forse è questo che cercava, il problema è che non lo sapeva mica. Però finalmente, mentre l'ultimo dei pezzi del suo corpo svanisce, gli sembra di trovarlo. Il silenzio.