Titolo: Hash brown with a touch of taco
Fandom: Sherlock Holmes (film)
Pairing: John Watson/Sebastian Moran
Genere: Guerra, introspettivo, erotico
Parole: 1973A
Avvertimenti: prequel, slash, what if?, missing moment
Rating: NSFW
Note: Okay, questa è una stronzata. Lo so che lo dico sempre, ma questa volta è vero-verissimo. Anzi, diciamo che la prima parte mi soddisfa, la seconda... meh. :/ Comunque. Niente, è una scemenza "XD oh, ed il titolo è una roba random che correggerò appena sarò sicura che siano le parole giuste #cripticità #megliocosì
[Scritta per la prima settimana del COW-T @
maridichallenge per la Missione 1 con prompt "Guerra";
Partecipa al Porn Fest #5 di
fanfic_italia con prompt "John Watson/Sebastian Moran, in Afghanistan".]
Sono troppi gli spari, troppo fitto è il fumo mischiato alle polveri scure del terreno secco, troppe sono le urla e gli spari e i gemiti di dolore e i rantoli di uomini che muoiono. Sotto il suoi occhi, l'odore del sangue che riempie fino al cervello il setto nasale. Il fucile trema fra le sue mani, il corpo è sul punto di non rispondere più a nessuno dei suoi deboli comandi.
Muoviti, John Watson. Muoviti, spara, sopravvivi.
Eppure il dito già pronto sul grilletto non si muove, le sue spalle tremano, gli occhi continuano a mettere fuori fuoco la massa confusa di corpi che lottano fra loro quando le armi diventano scomode. Se avesse un minimo di lucidità penserebbe che questo non gliel'hanno detto. Che prima o poi si finisce per combattere anche con le unghie, coi denti, con i piedi, per sopravvivere. Si spezzano gli arti a persone mai viste prima, le si soffocano per vivere. E poi si passa al prossimo, in una sequela troppo veloce per rendersi conto di ciò che si sta facendo. La guerra ti trasforma in una bestia e tu non lo sai nemmeno.
Ma John Watson non ha tempo e modo di pensare a tutto questo, si limita a sbattere le ciglia rapidamente, tremando, senza muoversi.
I suoni si attutiscono, o meglio lui smette di sentirli, ha paura che non potrà udirne mai più. Spalanca gli occhi e fissa lo stesso punto, vibrando ed irrigidendosi, spaventato dalla situazione ma ancora più spaventato dal fatto che non riesca a muoversi.
John Watson non è così, non è mai stato così, e non sa nemmeno perché all'improvviso abbia smesso di funzionare. Proprio come un ingranaggio: si è inceppato, i denti delle ruote non girano più, rimane fermo cercando di sbloccarsi eppure c'è qualcosa che gli impedisce di farlo. Basterebbe un colpetto, qualcosa a scuoterlo.
Pochi secondi dopo, qualcosa di massiccio gli si scaraventa contro malamente, mandandolo a sbattere con la testa contro il terreno, e John Watson è già rassegnato alla morte, con quel senso di spaventosa ineluttabilità che ha provato una decina di volte, durante la guerra. Tiene gli occhi chiusi, in una intimità con se stesso che pensa di potersi concedere ora che sta per finire tutto.
Attende un colpo alla testa, al cuore, o peggio una serie di spari un po' ovunque prima di spirare, eppure non arriva nulla di tutto questo. Al limite, a fargli riaprire gli occhi è un violento manrovescio che fa scattare il suo viso dall'altra parte, ed una voce maschile e burbera che urla.
«Watson, cazzo, datti una svegliata!»
Apre gli occhi, scombussolato, ancora tremante, fissandoli sull'uomo che l'ha probabilmente appena salvato. Che lo fissa per qualche secondo prima di scattare via e buttarsi a terra, ricominciando a sparare.
John Watson rimane steso lì, incapace di reagire, vergognandosi e stupendosi allo stesso tempo delle reazioni incunsulte che sta avendo il suo corpo. Ha freddo.
Quell'uomo era Sebastian Moran. Lo conosce abbastanza bene, hanno condiviso qualche pasto silenzioso in caserma. Non hanno quasi mai parlato, se non per chiedersi fiammiferi e cartine per le sigarette. Non può dire di odiarlo, ma ha visto in lui troppa eccitazione, troppa foga durante le battaglie per non chiedersi se si diverta perfino.
Lui no. Lo fa per dovere, lo fa per l'Inghilterra, lo fa per difendere gli interessi del suo Paese. Moran lo fa per diletto personale, ormai è evidente.
Lo guarda, a pochi passi da lui, e non può dire di non star provando un sottile senso di vergogna per il blocco di poco fa.
Si passa una mano sulla fronte, tornando a sentirsi travolto dalle urla e gli scoppi e i suoni lugubri di corpi fulminati durante la corsa. Suoni orribili ai quali, altrettanto orribilmente, si sta abituando, che fanno da sottofondo alle giornate terribili che sta vivendo. E non pensa neanche più all'eventualità che uno di quei corpi sarà lui: ha semplicemente messo da parte il dubbio, perché quello che conta è sopravvivere di minuto in minuto, finché eventualmente non accadrà.
Non lo sa nemmeno quanto tempo rimanga disteso, prima di voltarsi di scatto sulla pancia ed infilare il fucile sotto l'ascella, strisciando accanto al Colonnello, che gli rivolge soltanto un'occhiata neutra, prima di riprendere a sparare, con clinica precisione come stesse ricucendo un compagno. Solo che ora perfora casse toraciche, crani; spezza spine dorsali, perfora trachee, distrugge vite. Spinge i pensieri da una parte, ripetendosi che più ne uccide prima finirà. L'importante è che quella battaglia finisca e che lui rimanga vivo. Può sentire l'orrore sulla lingua, ma non ci fa caso e continua a sparare, ricaricare, sparare di nuovo. Moran, al suo fianco, rimane nel silenzio puntellato di spari, masticando qualcosa, borbottando parole luride e volgari. John Watson ignora pure quello, punta spara.
E poi arriva il momento in cui i rumori si diradano, gli scoppi diminuiscono, le urla si alzano e poi si affievoliscono, una intensa ondata di sollievo investe i sudditi di Sua Maestà.
Watson rimane a fissare la linea nemica che si ritira velocemente assieme alla polvere, avvertendo l'avvicinarsi dei pensieri, delle sensazioni, degli stati d'animo. Vorrebbe così tanto tenerli fuori dalla sua testa il più possibile, ma sa anche di non poterli controllare. Perciò si lascia andare con la fronte contro il braccio, coprendo ogni altro pensiero con 'sono sopravvissuto'.
Quando torna alle tende può sentire un odore buono di salsicce, col fumo bianco dei fuochi improvvisati per la cena, mentre il cielo si colora di un azzurro più scuro e opaco, i lamenti dei soldati feriti e le conversazioni stanche, eccitate o rabbiose si intrecciano con l'atmosfera generale di sollievo. Si trascina verso la sua tenda, sospirando nella solitudine e lanciando un'occhiata al cumulo di coperte accanto al proprio. Qualche giorno prima ci dormiva un amico, che ora è morto. Afferra una bottiglia di liquore forte, togliendo il tappo e riempiendosi il corpo di quel liquido che brucia appena nel naso, nelle viscere e che fa lacrimare gli occhi.
La bottiglia è quasi vuota. Watson considera che è meglio finirla, tanto non ce n'è abbastanza per ubriacarsi di nuovo, quindi... Meglio approfittarne ora. Domani ne comprerà un'altra dal contrabbandiere afgano.
Inutile farsi preoccupazioni.
Si stende sul suo cosiddetto letto, avvertendo i primi timidi ma precisi morsi della fame, decidendo che non ha voglia di alzarsi per il rancio. Magari urlerà a qualcuno fuori dalla sua tenda sperando che un ragazzo volenteroso come lui gli farà un favore.
Il ragazzo volenteroso ha qualche anno più di lui, chiaramente, ed è l'uomo che pare aver deciso di riscuotere qualche tipo di debito morale con lui.
«S-salve, Moran» Balbetta, sporgendosi oltre il petto per mettere a fuoco la figura appena entrata nella tenda illuminata appena da una lampada ad olio. «Divertito, oggi?»
Moran sghignazza appena, portandogli una salsiccia che il dottore afferra ed addenta subito, sospirando dopo il primo morso. «Poteva andare peggio. Tu potevi rimanere senza una gamba, per esempio, dottore» Allude, sedendosi per terra sopra il giaciglio vuoto. Watson gli lancia un'occhiata vagamente irritata, prima di dare un altro morso alla salsiccia, decidendo di rimanere in silenzio.
«Che diavolo ti è preso?»
John Watson, poco più di vent'anni, scuote appena le spalle, troppo brillo per ricordare che cosa ha fatto qualche ora fa ed in parte assolutamente restio dal raccontare i propri processi mentali ad un uomo che in parte disprezza. Ma ha finito la salsiccia, quindi non ha motivi formali per non rispondere.
«Non sono affari tuoi.»
«Ti sei spaventato, eh?»
«No» Risponde troppo in fretta, con gli occhi che lampeggiano dentro quelli di Moran, il quale ha capito ed ha deciso che provocare il dottorino potrebbe rivelarsi divertente.
«No? Eri lì che tremavi come una foglia. E uno di quelli lì ti stava puntando un'arma contro. Eri terrorizzato» Cantilena, ridendo sotto i baffi.
Watson scuote la testa, stringendo i denti fra loro e rimanendo in silenzio. «Che cosa vuoi, Moran?»
L'altro ride, sedendosi un po' più vicino, prima di afferrare il sacchetto con il tabacco e prendere con pazienza ad arrotolare una sigaretta.
«Vai fuori a fumare.»
«Tu vieni fuori con me. Stasera ci sono le puttane.»
«Non mi interessa» Replica stizzito il dottore, guardandolo con un certo ribrezzo negli occhi. Lui non si è mai unito carnalmente con una donna e non sprecherà l'occasione con una prostituta afgana senza nome.
«Come vuoi. Se vuoi resto con te» Lo stuzzica ancora Moran, con un ghigno.
«No, non... Ho bisogno di niente. Se vuoi portami del cibo o...»
Si interrompe per sospirare e chiudere gli occhi, in una ondata di torpore portato dall'alcool. Moran è il suo Colonnello, ma figurarsi se gli importa che gli si dia del 'lei', specialmente da parte di un uomo ubriaco per la totale incapacità, per come la vede lui, di affrontare una situazione violenta. Anche se, lo ammette, pare che sappia fare bene il suo lavoro di medico, nonostante il fatto che si vedano mutilazioni, ferite ed infezioni abominevoli sui corpi dei loro compagni.
«Colonnello Moran, la prego, mmh-mi lasci solo.»
«Checca.»
Watson non risponde, probabilmente già crollato in uno stato precedente al sonno. Moran ridacchia fra sé e sé, decidendo di passare il tempo in un modo più ricreativo delle carte con i commilitoni.
Piano, come fosse bambino e stesse combinando qualcosa sotto il naso dei genitori, prende a sciogliere lentamente la cintura dei pantaloni di Watson, che non mostra alcuna reazione.
Come se si stesse infiltrando in un campo sconosciuto per rubare ortaggi. Ed invece sta solo infilando la mano nelle mutande di un soldato per estrarre il suo sesso ancora molle e prendere a muoverci la mano attorno con una certa rudezza, perché quando lui si masturba non lo fa certo delicatamente, perdio. E mentre il dottore prende a borbottare confusamente nel suo stato di ubriachezza, può sentirlo indurirsi sotto le dita, perché persino l'integerrimo John Watson ha delle pulsioni, anche se probabilmente domani rifiuterà di averle provate. Moran sa che è inevitabile, e sa già che si divertirà, l'indomani, a guardarlo dritto negli occhi e vedere la vergogna raffreddare quel colore chiaro attorno alle pupille.
Dopo qualche minuto - tanto è rintronato - Watson si rende finalmente conto di ciò che sta accadendo nei suoi pantaloni, con una certa confusione. Alza la testa per incontrare il ghigno del Colonnello, rimane muto per la sorpresa, per la vergogna, per il ribrezzo. E per il sottilissimo senso di piacere che sale dal basso ventre mentre quella mano ruvida continua a muoversi con regolarità attorno al suo sesso. John Watson avverte una fitta di preoccupazione, un'ondata di piacere, una pugnalata di vergogna, tutto allo stesso tempo.
«Moran!» Esclama, finalmente, mandando una mano formicolante a tentare di fermare quella del Colonnello. Che con presa salda prende il suo polso, premendolo a lato della testa.
«Puoi gemere, Dottore.»
«Cosa stai facendo?» Quasi urla, senza però reagire oltre, in parte anche perché, soprendentemente, gli piace. E forse domani se ne dimenticherà, se è fortunato.
Smette di pensare quando la frequenza delle pulsazioni di piacere, scontrandosi contro la corrente opposta della vergogna per se stesso, vince su tutto il resto: sugli odori, sui canti che ondeggiano fuori da quella tenda, persino sui pensieri.
Non si accorge nemmeno di avere perso, riversando la propria frustrazione nella mano del Colonnello. Che ridacchia, estraendo un fazzoletto dalla tasca per ripulirsi.
«Stai meglio, no, Watson? Via, ammettilo.»
«Stai, uh... Stai zitto, Moran.»
L'altro ride piano, avvicinandosi al suo viso e guardandolo negli occhi appannati, afferrandogli con uno scatto la mascella. «Colonnello Moran» Sibila, con un ghigno.
Ed è facile per lui, che è sobrio e può drizzarsi in piedi, scivolare fuori dalla tenda, mischiandosi al gruppo di ragazzi che gioca d'azzardo poco lontano.
John Watson, invece, rimane solo in quella tenda, desiderando di non rivederlo mai più. O che qualcuno denunci le sue perversità. Perché ammettere che in fondo gli sia piaciuto è fuori discussione, e dopotutto c'è una legge da rispettare. E lui non vuole essere appeso per il collo, per cose come questa.
Alla fine, decide di alzarsi dal suo giaciglio, barcollare fino alla prima faccia affidabile, sperando di avere abbastanza soldi. Per un'altra bottiglia di vino.
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Pairing: John Watson/Sebastian Moran
Genere: Guerra, introspettivo, erotico
Parole: 1973A
Avvertimenti: prequel, slash, what if?, missing moment
Rating: NSFW
Note: Okay, questa è una stronzata. Lo so che lo dico sempre, ma questa volta è vero-verissimo. Anzi, diciamo che la prima parte mi soddisfa, la seconda... meh. :/ Comunque. Niente, è una scemenza "XD oh, ed il titolo è una roba random che correggerò appena sarò sicura che siano le parole giuste #cripticità #megliocosì
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Sono troppi gli spari, troppo fitto è il fumo mischiato alle polveri scure del terreno secco, troppe sono le urla e gli spari e i gemiti di dolore e i rantoli di uomini che muoiono. Sotto il suoi occhi, l'odore del sangue che riempie fino al cervello il setto nasale. Il fucile trema fra le sue mani, il corpo è sul punto di non rispondere più a nessuno dei suoi deboli comandi.
Muoviti, John Watson. Muoviti, spara, sopravvivi.
Eppure il dito già pronto sul grilletto non si muove, le sue spalle tremano, gli occhi continuano a mettere fuori fuoco la massa confusa di corpi che lottano fra loro quando le armi diventano scomode. Se avesse un minimo di lucidità penserebbe che questo non gliel'hanno detto. Che prima o poi si finisce per combattere anche con le unghie, coi denti, con i piedi, per sopravvivere. Si spezzano gli arti a persone mai viste prima, le si soffocano per vivere. E poi si passa al prossimo, in una sequela troppo veloce per rendersi conto di ciò che si sta facendo. La guerra ti trasforma in una bestia e tu non lo sai nemmeno.
Ma John Watson non ha tempo e modo di pensare a tutto questo, si limita a sbattere le ciglia rapidamente, tremando, senza muoversi.
I suoni si attutiscono, o meglio lui smette di sentirli, ha paura che non potrà udirne mai più. Spalanca gli occhi e fissa lo stesso punto, vibrando ed irrigidendosi, spaventato dalla situazione ma ancora più spaventato dal fatto che non riesca a muoversi.
John Watson non è così, non è mai stato così, e non sa nemmeno perché all'improvviso abbia smesso di funzionare. Proprio come un ingranaggio: si è inceppato, i denti delle ruote non girano più, rimane fermo cercando di sbloccarsi eppure c'è qualcosa che gli impedisce di farlo. Basterebbe un colpetto, qualcosa a scuoterlo.
Pochi secondi dopo, qualcosa di massiccio gli si scaraventa contro malamente, mandandolo a sbattere con la testa contro il terreno, e John Watson è già rassegnato alla morte, con quel senso di spaventosa ineluttabilità che ha provato una decina di volte, durante la guerra. Tiene gli occhi chiusi, in una intimità con se stesso che pensa di potersi concedere ora che sta per finire tutto.
Attende un colpo alla testa, al cuore, o peggio una serie di spari un po' ovunque prima di spirare, eppure non arriva nulla di tutto questo. Al limite, a fargli riaprire gli occhi è un violento manrovescio che fa scattare il suo viso dall'altra parte, ed una voce maschile e burbera che urla.
«Watson, cazzo, datti una svegliata!»
Apre gli occhi, scombussolato, ancora tremante, fissandoli sull'uomo che l'ha probabilmente appena salvato. Che lo fissa per qualche secondo prima di scattare via e buttarsi a terra, ricominciando a sparare.
John Watson rimane steso lì, incapace di reagire, vergognandosi e stupendosi allo stesso tempo delle reazioni incunsulte che sta avendo il suo corpo. Ha freddo.
Quell'uomo era Sebastian Moran. Lo conosce abbastanza bene, hanno condiviso qualche pasto silenzioso in caserma. Non hanno quasi mai parlato, se non per chiedersi fiammiferi e cartine per le sigarette. Non può dire di odiarlo, ma ha visto in lui troppa eccitazione, troppa foga durante le battaglie per non chiedersi se si diverta perfino.
Lui no. Lo fa per dovere, lo fa per l'Inghilterra, lo fa per difendere gli interessi del suo Paese. Moran lo fa per diletto personale, ormai è evidente.
Lo guarda, a pochi passi da lui, e non può dire di non star provando un sottile senso di vergogna per il blocco di poco fa.
Si passa una mano sulla fronte, tornando a sentirsi travolto dalle urla e gli scoppi e i suoni lugubri di corpi fulminati durante la corsa. Suoni orribili ai quali, altrettanto orribilmente, si sta abituando, che fanno da sottofondo alle giornate terribili che sta vivendo. E non pensa neanche più all'eventualità che uno di quei corpi sarà lui: ha semplicemente messo da parte il dubbio, perché quello che conta è sopravvivere di minuto in minuto, finché eventualmente non accadrà.
Non lo sa nemmeno quanto tempo rimanga disteso, prima di voltarsi di scatto sulla pancia ed infilare il fucile sotto l'ascella, strisciando accanto al Colonnello, che gli rivolge soltanto un'occhiata neutra, prima di riprendere a sparare, con clinica precisione come stesse ricucendo un compagno. Solo che ora perfora casse toraciche, crani; spezza spine dorsali, perfora trachee, distrugge vite. Spinge i pensieri da una parte, ripetendosi che più ne uccide prima finirà. L'importante è che quella battaglia finisca e che lui rimanga vivo. Può sentire l'orrore sulla lingua, ma non ci fa caso e continua a sparare, ricaricare, sparare di nuovo. Moran, al suo fianco, rimane nel silenzio puntellato di spari, masticando qualcosa, borbottando parole luride e volgari. John Watson ignora pure quello, punta spara.
E poi arriva il momento in cui i rumori si diradano, gli scoppi diminuiscono, le urla si alzano e poi si affievoliscono, una intensa ondata di sollievo investe i sudditi di Sua Maestà.
Watson rimane a fissare la linea nemica che si ritira velocemente assieme alla polvere, avvertendo l'avvicinarsi dei pensieri, delle sensazioni, degli stati d'animo. Vorrebbe così tanto tenerli fuori dalla sua testa il più possibile, ma sa anche di non poterli controllare. Perciò si lascia andare con la fronte contro il braccio, coprendo ogni altro pensiero con 'sono sopravvissuto'.
Quando torna alle tende può sentire un odore buono di salsicce, col fumo bianco dei fuochi improvvisati per la cena, mentre il cielo si colora di un azzurro più scuro e opaco, i lamenti dei soldati feriti e le conversazioni stanche, eccitate o rabbiose si intrecciano con l'atmosfera generale di sollievo. Si trascina verso la sua tenda, sospirando nella solitudine e lanciando un'occhiata al cumulo di coperte accanto al proprio. Qualche giorno prima ci dormiva un amico, che ora è morto. Afferra una bottiglia di liquore forte, togliendo il tappo e riempiendosi il corpo di quel liquido che brucia appena nel naso, nelle viscere e che fa lacrimare gli occhi.
La bottiglia è quasi vuota. Watson considera che è meglio finirla, tanto non ce n'è abbastanza per ubriacarsi di nuovo, quindi... Meglio approfittarne ora. Domani ne comprerà un'altra dal contrabbandiere afgano.
Inutile farsi preoccupazioni.
Si stende sul suo cosiddetto letto, avvertendo i primi timidi ma precisi morsi della fame, decidendo che non ha voglia di alzarsi per il rancio. Magari urlerà a qualcuno fuori dalla sua tenda sperando che un ragazzo volenteroso come lui gli farà un favore.
Il ragazzo volenteroso ha qualche anno più di lui, chiaramente, ed è l'uomo che pare aver deciso di riscuotere qualche tipo di debito morale con lui.
«S-salve, Moran» Balbetta, sporgendosi oltre il petto per mettere a fuoco la figura appena entrata nella tenda illuminata appena da una lampada ad olio. «Divertito, oggi?»
Moran sghignazza appena, portandogli una salsiccia che il dottore afferra ed addenta subito, sospirando dopo il primo morso. «Poteva andare peggio. Tu potevi rimanere senza una gamba, per esempio, dottore» Allude, sedendosi per terra sopra il giaciglio vuoto. Watson gli lancia un'occhiata vagamente irritata, prima di dare un altro morso alla salsiccia, decidendo di rimanere in silenzio.
«Che diavolo ti è preso?»
John Watson, poco più di vent'anni, scuote appena le spalle, troppo brillo per ricordare che cosa ha fatto qualche ora fa ed in parte assolutamente restio dal raccontare i propri processi mentali ad un uomo che in parte disprezza. Ma ha finito la salsiccia, quindi non ha motivi formali per non rispondere.
«Non sono affari tuoi.»
«Ti sei spaventato, eh?»
«No» Risponde troppo in fretta, con gli occhi che lampeggiano dentro quelli di Moran, il quale ha capito ed ha deciso che provocare il dottorino potrebbe rivelarsi divertente.
«No? Eri lì che tremavi come una foglia. E uno di quelli lì ti stava puntando un'arma contro. Eri terrorizzato» Cantilena, ridendo sotto i baffi.
Watson scuote la testa, stringendo i denti fra loro e rimanendo in silenzio. «Che cosa vuoi, Moran?»
L'altro ride, sedendosi un po' più vicino, prima di afferrare il sacchetto con il tabacco e prendere con pazienza ad arrotolare una sigaretta.
«Vai fuori a fumare.»
«Tu vieni fuori con me. Stasera ci sono le puttane.»
«Non mi interessa» Replica stizzito il dottore, guardandolo con un certo ribrezzo negli occhi. Lui non si è mai unito carnalmente con una donna e non sprecherà l'occasione con una prostituta afgana senza nome.
«Come vuoi. Se vuoi resto con te» Lo stuzzica ancora Moran, con un ghigno.
«No, non... Ho bisogno di niente. Se vuoi portami del cibo o...»
Si interrompe per sospirare e chiudere gli occhi, in una ondata di torpore portato dall'alcool. Moran è il suo Colonnello, ma figurarsi se gli importa che gli si dia del 'lei', specialmente da parte di un uomo ubriaco per la totale incapacità, per come la vede lui, di affrontare una situazione violenta. Anche se, lo ammette, pare che sappia fare bene il suo lavoro di medico, nonostante il fatto che si vedano mutilazioni, ferite ed infezioni abominevoli sui corpi dei loro compagni.
«Colonnello Moran, la prego, mmh-mi lasci solo.»
«Checca.»
Watson non risponde, probabilmente già crollato in uno stato precedente al sonno. Moran ridacchia fra sé e sé, decidendo di passare il tempo in un modo più ricreativo delle carte con i commilitoni.
Piano, come fosse bambino e stesse combinando qualcosa sotto il naso dei genitori, prende a sciogliere lentamente la cintura dei pantaloni di Watson, che non mostra alcuna reazione.
Come se si stesse infiltrando in un campo sconosciuto per rubare ortaggi. Ed invece sta solo infilando la mano nelle mutande di un soldato per estrarre il suo sesso ancora molle e prendere a muoverci la mano attorno con una certa rudezza, perché quando lui si masturba non lo fa certo delicatamente, perdio. E mentre il dottore prende a borbottare confusamente nel suo stato di ubriachezza, può sentirlo indurirsi sotto le dita, perché persino l'integerrimo John Watson ha delle pulsioni, anche se probabilmente domani rifiuterà di averle provate. Moran sa che è inevitabile, e sa già che si divertirà, l'indomani, a guardarlo dritto negli occhi e vedere la vergogna raffreddare quel colore chiaro attorno alle pupille.
Dopo qualche minuto - tanto è rintronato - Watson si rende finalmente conto di ciò che sta accadendo nei suoi pantaloni, con una certa confusione. Alza la testa per incontrare il ghigno del Colonnello, rimane muto per la sorpresa, per la vergogna, per il ribrezzo. E per il sottilissimo senso di piacere che sale dal basso ventre mentre quella mano ruvida continua a muoversi con regolarità attorno al suo sesso. John Watson avverte una fitta di preoccupazione, un'ondata di piacere, una pugnalata di vergogna, tutto allo stesso tempo.
«Moran!» Esclama, finalmente, mandando una mano formicolante a tentare di fermare quella del Colonnello. Che con presa salda prende il suo polso, premendolo a lato della testa.
«Puoi gemere, Dottore.»
«Cosa stai facendo?» Quasi urla, senza però reagire oltre, in parte anche perché, soprendentemente, gli piace. E forse domani se ne dimenticherà, se è fortunato.
Smette di pensare quando la frequenza delle pulsazioni di piacere, scontrandosi contro la corrente opposta della vergogna per se stesso, vince su tutto il resto: sugli odori, sui canti che ondeggiano fuori da quella tenda, persino sui pensieri.
Non si accorge nemmeno di avere perso, riversando la propria frustrazione nella mano del Colonnello. Che ridacchia, estraendo un fazzoletto dalla tasca per ripulirsi.
«Stai meglio, no, Watson? Via, ammettilo.»
«Stai, uh... Stai zitto, Moran.»
L'altro ride piano, avvicinandosi al suo viso e guardandolo negli occhi appannati, afferrandogli con uno scatto la mascella. «Colonnello Moran» Sibila, con un ghigno.
Ed è facile per lui, che è sobrio e può drizzarsi in piedi, scivolare fuori dalla tenda, mischiandosi al gruppo di ragazzi che gioca d'azzardo poco lontano.
John Watson, invece, rimane solo in quella tenda, desiderando di non rivederlo mai più. O che qualcuno denunci le sue perversità. Perché ammettere che in fondo gli sia piaciuto è fuori discussione, e dopotutto c'è una legge da rispettare. E lui non vuole essere appeso per il collo, per cose come questa.
Alla fine, decide di alzarsi dal suo giaciglio, barcollare fino alla prima faccia affidabile, sperando di avere abbastanza soldi. Per un'altra bottiglia di vino.
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